Le vite perfette degli altri: differenza tra realtà e narrazione.

Le vite perfette degli altri: differenza tra realtà e narrazione.

Negli ultimi giorni si è molto parlato di un caso esploso nel mondo dei social. Un nota mamma influencer, che ha basato tutta la propria immagine sulla narrazione del proprio passato non sempre facile e del proprio impegno nel ruolo di madre, è balzata alle cronache per essere stata accusata di aver mentito su molti eventi ed aspetti della propria vita fondamentali proprio per l’immagine che per anni è riuscita a dare di sé come persona resiliente e madre sempre adeguata e risoluta.

Senza voler entrare nel merito della questione vorrei riallacciarmi all’ultimo post che ho pubblicato poche settimane fa e scrivere qui qualche riflessione sull’idea di maternità perfetta e di famiglia perfetta, che spesso può suscitare in chi le osserva la sensazione di essere persone poco capaci di vivere al meglio nella nostra imperfetta quotidianità.

Sia attraverso l’utilizzo dei social network, sia in situazioni di vita quotidiana, ci ritroviamo ad osservare l’immagine degli altri spesso con un senso di inadeguatezza, senza accorgerci che ciò che vediamo in superficie non è tutta la sostanza di cui è fatta la vita di chi abbiamo di fronte, e che spesso si tratta di segnali, informazioni e messaggi scelti con cura per dare all’esterno l’illusione del proprio benessere, della propria massima efficienza ed adeguatezza.

Finchè ci si limita a far emergere la parte migliore di sè con serenità e tolleranza verso noi stessi e gli altri, si tratta di un atteggiamento normale ed umano, tutti abbiamo interesse e cura nell’apparire al meglio in tante situazioni.  Può però accadere che alcune persone, per svariati motivi, siano molto più attente di altre all’immagine che offrono di sé arrivando a costruire impalcature fatte di ostentazioni studiate per apparire perfette, mezze bugie per coprire verità scomode, omissioni di particolari informazioni che non siano in assonanza con la propria narrazione accuratamente studiata. Sono pochi coloro che manifestano le proprie fragilità apertamente, perché la nostra società è impostata su alti livelli di performance, che spesso restano un’immagine ideale irraggiungibile ma per quanto possibile da noi sfiorata e narrata, rendendoci difficile uscire dal confine dell’apparente perfezione in cui ci viene richiesto di rimanere.

Questo ostacola la creazione di rapporti autentici, in cui ci si sente liberi di aprirsi e mostrarsi con le proprie luci e le proprie ombre a qualcuno degno della nostra fiducia, che faccia altrettanto con noi scoprendosi a sua volta e dimostrandoci che ognuno a proprio modo vive in equilibrio tra risorse e difficoltà. Sono molte le persone che, pur essendo per la maggior parte del tempo circondate dagli altri, in realtà si sentono sole. Questo senso di solitudine parla di tutto ciò che siamo ma non ci sentiamo di poter mostrare, per paura del giudizio di una società che elargisce profili (spesso social) perfetti a cui attenersi, e stigmatizza ciò che è diverso dalla norma e dunque non performante secondo i propri canoni di utilità ed efficienza.

Il risultato di questo fenomeno può essere duplice: da un lato può far crescere nella persona che si confronta con tali narrazioni di genitorialità perfetta e realizzazione di progetti familiari simili alla famiglia del Mulino Bianco,  un senso di frustrazione circa la propria imperfezione come genitore, innescando un circolo vizioso fatto di rabbia verso se stessi ed i propri figli per la non corrispondenza con l’ideale a cui ci si vorrebbe conformare, ed atteggiamenti di aggressività passiva nel tentativo di impedire a tale rabbia di esplodere perché non sarebbe in linea con il genitore zen, impassibile e sempre sorridente che sentiamo di non essere.

L’altro lato della medaglia è l’impulso di emulazione che il genitore perfetto instilla in chi lo osserva, una rincorsa continua di un modello che di reale ha ben poco, che spesso porta chi ci cade a discostarsi dalla realtà così com’è, filtrando solo gli aspetti che gli diano l’illusione di poter raggiungere tale ideale. Questo atteggiamento nella vita quotidiana può portare a dirigere l’attenzione solo alle interazioni positive che avvengono in famiglia, mettendo in ombra i vissuti di difficoltà e sofferenza che stonano con la narrazione di apparente perfezione, e che restano dunque irrisolti. In questo modo si finisce per rimanere vittime della propria narrazione, spettatori della propria vita perché vissuta solo attraverso un filtro imposto da un ideale esterno e spesso falso.

Tornando alla notizia da cui è scaturita tale riflessione, vorrei esprimere la speranza che questo sia solo il primo di tanti castelli di carta a crollare, e che tutti noi diventiamo sempre più consapevoli della differenza tra realtà e narrazione di essa, tra genitore perfetto e genitore amorevole, tra perfezione narrata e umanità vissuta.

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